Intervista a Lucy Durneen

La scrittrice britannica Lucy Durneen, autrice del racconto Gesti Spontanei (in lingua originale Wild Gestures), si racconta a La Tigre di Carta per esprimere quali siano per lei i valori della scrittura e della Letteratura. Scrittrice di racconti, poesia e creative non-fiction, nata a Cambridge e al momento residente nella parte sud ovest dell’Inghilterra, è anche docente di Letteratura Inglese e Scrittura Creativa, nonché assistente editoriale della rivista letteraria Short Fiction. La sua prima raccolta di racconti verrà pubblicata nel 2017 dalla casa editrice australiana Midnight Sun.

Che significato ha questa storia per te?

Un paio d’anni fa andai a una conferenza sui racconti e frequentai un laboratorio di scrittura con lo scrittore americano Robert Olen Butler, che in quell’occasione parlò dell’idea di “desiderio manifesto”. Nella scrittura, disse, il desiderio è la forza motrice dietro la trama: «Il personaggio brama, il personaggio fa qualcosa in relazione a quella brama e qualche genere di forza, o altri desideri, cercheranno di bloccare il compimento di quella brama». Anche se credo di averlo sempre capito istintivamente, quella fu la prima volta in assoluto che ci pensai davvero. Mi chiesi cosa sarebbe successo se mai avessi messo tutto il mio desiderio, per le persone, i luoghi, le situazioni, in un solo posto. Non avevo idea se avrebbe potuto funzionare o meno, o se sarebbe stato troppo, troppo crudo o espositivo. Gesti Spontanei è il risultato. Per me è stato molto significativo il fatto che i lettori sembrassero entusiasti della storia, che in qualche modo era cominciata come un esperimento per poi diventare forse una delle cose più vere che io abbia mia scritto.

C’è un significato nascosto, al di là della superficie?

Molte persone mi hanno chiesto se questa storia riguardasse qualcuno in particolare. Di solito chiedono se i due personaggi siano poi vissuti felici e contenti. Nella storia accade che gli amanti – i non amanti – si stancano delle rispettive vite e quasi certamente non si incontreranno più, anche se vorrebbero. Dopotutto, è una storia di desiderio. Nella vita reale su internet si trovano articoli che ti dicono come barcamenarti con questo genere di sentimento. Ciò che questi articoli dicono sempre è: lasciateli indietro, all’aeroporto. E che succede se non puoi?

Nella finzione puoi far accadere tutto ciò che vuoi, ma nello spirito del desiderio manifesto io non volevo dare a quei personaggi una soluzione facile. La vita non ci dà soluzioni facili, o lieti fini, e non soddisfa il nostro desiderio. Quando le persone me lo chiedono, se la storia ha un significato nascosto, se ho scritto di qualcuno in particolare, questo è ciò che dico: Sì, l’ho fatto. Ho scritto di ogni uomo che io abbia conosciuto nella mia vita.

Come hai cominciato a scrivere questa storia? Da dove hai preso ispirazione? Come e dove questa storia ha avuto inizio?

Il racconto ha richiesto molto tempo, per certi versi. Ha preso vita sotto forma di una storia completamente diversa intitolata Le Vie dei Fornai sono Misteriose, riferimento obliquo ad Aleksandar Hemon, così come al fatto che la storia fosse incentrata sul potere sedativo delle torte; in quel periodo leggevo anche molto Murakami. Si trattava di due persone che si incontrano soltanto nelle aree d’attesa delle partenze degli aeroporti e si innamorano in questi strani mondi-di-mezzo, questi spazi in cui non sei né qui né lì, ma sempre in movimento. Però, non suonava mai bene. Ho lasciato la storia sola per qualche mese, finché non si è di nuovo fatta strada a gomitate nella mia testa, in un periodo davvero scomodo, proprio quando avevo bisogno di fare altre cose; insegnare, fare ricerca, essere una buona madre. Alla fine, l’ho scritto in ventiquattro ore. Dopodiché non ho più cambiato una virgola. L’ho inviato a uno degli uomini a cui mi ero ispirata. «Dannazione», ha detto.

Generalmente da dove arrivano le tue storie, e come?

Molte delle mie storie vengono da un posto “reale”, ma con reale non intendo strettamente autobiografico. A volte sento una conversazione interessante su un treno, o visito un luogo che mi fa pensare a cosa mai sarebbe potuto accadervi. Gesti Spontanei ha finito per essere ambientato a Berlino perché ci ho vissuto, e potevo visualizzare la città molto chiaramente mentre scrivevo. Una storia potrebbe iniziare da un fatto tangibile, un momento di pura realtà, ma poi diventa sempre qualcos’altro. Il padre dei miei figli è stato a lungo malato e in quel periodo ho scritto molto di ospedali, precipizi, confini – ma non ho davvero notato questo schema ricorrere finché lui non morì. Come dice Chris Kraus in I love Dick, «Tutto ciò che accade [nel libro, N.d.A.] è accaduto prima nella vita reale, ma non si tratta di una raccolta di memorie». Tutto è vero, quando scrivi; anche le bugie che dici le dici soltanto per provare a mascherare le cose più vere che conosci.

Cosa significa la scrittura per te?

Scrivere per me è tutto. Qualche anno fa dovetti sottopormi a un’importante operazione chirurgica. L’ultima cosa che dissi all’anestesista fu «Non lasci che mi facciano niente che mi impedisca di scrivere». «Non ci andiamo neanche vicino, al suo cervello», rispose lui, e mi addormentò. La mia più grande paura era che svegliandomi non sarei più stata in grado di scrivere, o di pensare abbastanza chiaramente da poter scrivere. A volte ci sono quei momenti nei quali le parole non vengono, e di solito me ne preoccupavo, ma adesso capisco che queste cose capitano a cicli; i tempi tranquilli sono quelli in cui raduni le storie, noti le cose. Spesso ci si mette mesi per scriverle, queste cose, e a volte persino anni.

Come, quando e perché hai deciso di diventare una scrittrice? E, a proposito, l’hai mai veramente deciso?

Quando avevo tre anni dissi ai miei genitori che volevo fare la scrittrice. «Ma non è un lavoro», disse mia madre. Mio padre non disse niente, ma sorrise. Scambiammo uno sguardo che diceva vedremo. Mio padre è uno scrittore. Da lui ho imparato che c’è bellezza nella precisione – che lacrimare non è lo stesso di piangere, che cambiava moltissimo dire carino quando in realtà quello che intendevi era stupefacente, estatico, eccezionale. Lui mi leggeva Dracula e Sogni Australiani e, più avanti, i grandi poeti russi come Puškin, e io realizzavo che è possibile che i peli dietro il collo ti si rizzino mentre leggi, come se le parole fossero un incantesimo. Mio padre mi mostrò che i libri sono mondi stranieri, e da quel momento io ne rimasi catturata. Non c’è mai stata un’altra strada. Ora, come disse Hemingway, «Ho bisogno di scrivere per essere felice». Non posso immaginare la mia vita senza la scrittura.

Qual è il genere che preferisci scrivere?

Scrivo più che altro racconti, che credo possano essere considerati come finzione letteraria, anche se amo molto la fantascienza e vorrei esplorarla un po’ di più. Recentemente ho trovato che il mio lavoro non si adatta a nessuna particolare categoria. Sto per pubblicare una poesia, in America, su un giornale di “letteratura ibrida”; la poesia è lunga cinque pagine e per certi versi è più un pezzo di narrativa breve. C’è molta fluidità tra le due forme; le poesie crescendo si avvicinano o si allontanano dal racconto, i racconti prendono molto dalla voce poetica. Mi piace l’idea che, come succede con l’identità umana, la scrittura creativa non possa essere singolarmente definita o confinata, e che sempre più riviste letterarie stiano abbracciando questo concetto. «La forma è un’espressione del contenuto», come dice Coetzee… non puoi sapere che cosa qualcosa diventerà finché non è finito.

Quali sono le letture preferite di Lucy Durneen?

Prima pensavo di leggere per “evadere” dal mondo reale, ma adesso sono sicura che sia l’opposto – io leggo per provare a comprendere quale sia il mio posto nel mondo reale. Al momento sto leggendo Il museo dell’innocenza di Orhan Pamuk, ma ogni tanto dò un’occhiata anche a un po’ di non-fiction; Prisoners of Geography, che tratta di geopolitica, e Déjà vu and the end of History di Paolo Virno. Quando scrivo mi piace leggere non-fiction – non interferisce e non “compete” con il mio lavoro allo stesso modo in cui lo fanno le voci dei romanzi o dei racconti.

Cosa significa per te Letteratura?

Quando vivevo a Cambridge ospitavo uno studente dell’Open Mic Poetry Night col poeta inglese Caron Freeborn, indirizzato agli studenti. Il nostro slogan era «Le parole hanno potere». I nostri studenti ci avrebbero chiesto cosa c’entrasse la poesia, e noi avremmo risposto così: le parole sono contrabbandate dai campi di concentramento, attraverso gli avamposti di confine, al di là di mari e monti. Le parole vengono ingoiate e ricordate e bruciate in noi così che possano sopravvivere. Questo è il motivo per cui scriviamo. Questo è il motivo per cui leggiamo. Oggi più che mai è importante ricordare quanto sia vitale che le nostre storie sopravvivano. Rischiamo tutto per loro perché le nostre personalità, le nostre comunità facciano altrettanto.

E la tua Letteratura?

Mi interessa scrivere momenti straordinari di vite ordinarie e penso – spero! – che questo tocchi il cuore delle persone che leggono il mio lavoro. Qualche anno fa faticavo a trovare il modo giusto per esprimere un sentimento particolare, una certa qualità esperienziale, e mi venne dato questo consiglio: «Tutto ciò che devi fare è scrivere la storia del cuore umano». Come se fosse facile! Però non ho mai scordato quelle parole. Alcuni pezzi arrivano più facilmente di altri, ma c’è sempre quello che io cerco di fare – mostrare qualcosa della vita in tutta la sua violenta, assurda bellezza.

 

Clicca qui per leggere l’articolo originale: https://www.latigredicarta.it/2016/07/30/intervista-a-lucy-durneen/

Clicca qui per leggere la traduzione del racconto “Gesti spontanei”: https://www.latigredicarta.it/2016/07/30/gesti-spontanei/